RU 486 ad un anno dal via è un flop
E’ passato in sordina il primo anniversario della pillola abortiva che, in un anno dalla sua introduzione in Italia (1° aprile 2010), è stata distribuita in circa 6mila confezioni, 500 al mese.
Una quota «decisamente al di sotto delle attese e delle potenzialità del mercato», come riconosce la ditta distributrice del farmaco francese, la Nordic Pharma di Milano. Sulle ragioni del mancato boom le interpretazioni divergono tra chi le addebita all’«ostruzionismo» del governo e chi – compresi diversi medici abortisti – ai limiti intrinseci del farmaco.
Il grafico comparativo fornito con ammirevole trasparenza dalla Nordic Pharma lascia poco spazio ai dubbi. Su una colonna le vendite potenziali «stimate tenendo conto il limite delle sette settimane entro cui si può effettuare l’aborto farmacologico»; sull’altra, quelle reali. L’esempio più lampante è forse la Lombardia, con le sue 604 scatole del farmaco ordinate contro le oltre 5mila programmate. Non è da meno il Lazio con 142 scatole commercializzate contro le 3.500 previste. Non si salva neppure l’Emilia Romagna che pure importava il farmaco per la sperimentazione prima della «liberalizzazione» dell’anno scorso: 294 confezioni contro quasi 3mila ipotizzate. Stesso dicasi per la Toscana (773 contro 2mila) e la Puglia (615 contro 2.500). Unico dato in controtendenza è, a sorpresa, la Valle d’Aosta, con 75 scatole (contro una cinquantina previste); per il resto è un bilancio a senso unico che vede in fondo alla lista regioni come Calabria e Abruzzo (appena 15 confezioni) e le Marche (5). In totale, comunque, sono state vendute in un anno oltre 6mila scatole (una media di 500 al mese), ognuna delle quali può essere utilizzata per un solo aborto (tranne che nel caso dell’Emilia, il cui protocollo usa una confezione per tre procedure abortive). Il primato assoluto di utilizzo della pillola spetta al Piemonte, con ben 1.624 scatole ordinate (comunque al di sotto di quanto sperato dalla Nordic), seguito a distanza da Toscana e Liguria.
A parlare senza mezzi termini di «evidente fallimento» è Eugenia Roccella, sottosegretario alla Salute, secondo la quale bisogna registrare «il flop completo dell’operazione politica che puntava a una diffusione in massa della pillola per legalizzare l’aborto a domicilio. Nei fatti, si vede come in realtà la pillola sia usata per casi marginali e a livello di nicchia, vista anche la comprensibile diffidenza degli stessi medici». Roccella parla con in mano i dati del questionario sull’impiego del farmaco chiesto dal Ministero alle Regioni. «Li stiamo elaborando e li presenteremo a giorni. In ogni caso posso anticipare che una parte considerevole delle scatole vendute non è stata ancora utilizzata e che, in generale, sono poche le Asl che praticano l’aborto chimico».
Eppure, dall’alto dei suoi mille aborti con la Ru486 in un anno all’Ospedale Sant’Anna di Torino, il ginecologo ed esponente radicale Silvio Viale sostiene che gli unici ostacoli al pieno successo della pillola «sono l’ignoranza, oppure il rispetto dei diktat politici per il quieto vivere». Due condizioni bandite dal suo reparto: «Qui di fatto facciamo il day hospital», in barba alle linee guida del ministero e alle indicazioni dell’Aifa, che esigono la permanenza in ospedale fino all’espulsione del feto. Viale ammette che «il ricovero ordinario è per noi solo un pro forma: qui il 97% delle donne firma ed esce; noi medici siamo i primi a dire loro che possono andare a casa senza problemi». Viale non è ancora soddisfatto: «Se avessi struttura e personale adeguato, gli aborti con la pillola salirebbero al 30-40% del totale, mentre oggi viaggiamo sul 23%».
Ma perché i ginecologi preferiscono il metodo chirurgico? «Visto che bisogna superare molti ostacoli iniziali, i pochi medici non obiettori spesso preferiscono i sistemi già collaudati», risponde.
Da un mese in pensione, Emilio Arisi, ex direttore di ginecologia all’ospedale Santa Chiara di Trento, apertamente pro-Ru486, concorda nel ritenere i tre giorni di ricovero i principali 'indiziati' dell’insuccesso della pillola. «In un anno l’abbiamo usata appena una quarantina di volte, il ricovero scoraggia le donne» spiega. Di tutt’altro parere Filippo Maria Boscia, ginecologo obiettore al presidio Di Venere a Bari. Secondo lui «sta venendo meno uno dei teoremi più diffusi sulla pillola, e cioè che sia meno traumatica dell’intervento chirurgico». Boscia chiama in causa «i raschiamenti necessari quando la procedura non va a buon fine, gli effetti collaterali come crampi, perdite di sangue, il protrarsi dell’aborto a volte fino a cinque giorni» e testimonia di aver assistito una donna che si era rivolta a lui proprio per tali effetti. «Dopo aver preso la pillola, si ritrovò ad abortire da sola in casa, nel water.
Ebbe un’emorragia importante, era psicologicamente provata: la procedura che si protraeva da giorni l’aveva spinta a un ripensamento».
Di più: secondo Boscia, il «fallimento» della Ru starebbe dietro anche le recenti dimissioni di Nicola Blasi, il primo a praticare ufficialmente l’aborto con la Ru in Italia, al Policlinico di Bari.
La pillola «non decolla: era prevedibile», sostiene Mario Eandi, farmacologo dell’Università di Torino. «Al di là della propaganda, il farmaco è più difficile da usare. Rispetto all’aborto chirurgico necessita di più tempo e può comportare maggiori problemi. I primi a non accettare il 'nuovo' metodo sembrano essere proprio i ginecologi. Bisogna però aggiungere che la situazione a macchia di leopardo dimostra come abbiano un loro peso anche i protocolli regionali».
«Si potrebbe dire – sintetizza la Roccella – che laddove la pillola si diffonde lo fa a scapito delle garanzie che noi chiediamo, ossia il rispetto della 194 e la sicurezza per la donna. Non dobbiamo dimenticarci le morti causate dalla pillola nel mondo: per questo è necessaria la permanenza in ospedale, che garantisce un controllo continuo. L’importante è che si rispetti la legge». I dati che il Ministero sta raccogliendo, oltre che a fornire un primo bilancio, «serviranno ad aprire un confronto con le Regioni sulle situazioni anomale». (Avvenire)